La pubblica fontana di Pontecuti si trova circa 50 m fuori dalle mura del castello lungo la strada che, passando accanto alla chiesina seicentesca della Madonna della Cerquella, conduce alla riva del Tevere presso lo Scoglio delle Lavandare e che sino al secolo scorso continuava parallela al fiume sino alla confluenza con il torrente Naia. La struttura, di forma parallelepipeda (3,71 x 2,40 m), è realizzata in conci di calcarenite rozzamente squadrati ed è coperta da una moderna soletta in cemento. Sulla sommità è stato elevato in tempi recenti un puteale quadrangolare in laterizio terminante in una cornice leggermente aggettante di pietra arenaria. Il piccolo edificio si addossa alla ripida scarpata del colle che in questo punto è composto da un banco di pietra arenaria molto fratturato. La parete rivolta verso la strada presenta un arco di conci di travertino chiuso da una tamponatura in materiale laterizio. Sulla ghiera dell’arco e precisamente sul primo concio di sinistra è leggibile l’iscrizione rozzamente incisa: A / 1734. Sulla tamponatura sono inseriti un doccione in calcarenite e un moderno rubinetto dai quali fuoriesce l’acqua. Sempre sulla tamponatura è fissata una targa in marmo con una scritta che ricorda le norme che regolamentavano l’utilizzo della fonte nella prima metà del Novecento: ABBEVERATOIO / DIVIETO DI LAVARE. Di fronte alla parete una moderna sistemazione in pietre e cemento permette l’agevole prelievo del liquido e ne garantisce il deflusso verso gli orti sottostanti e verso il fiume.

Il vano interno della struttura è accessibile soltanto attraverso il puteale ed è normalmente allagato da 1,4 m d’acqua, cioè sino al livello del foro che comunica con il doccione. Il vano presenta una forma leggermente trapezoidale ed è coperto da una volta a botte di mattoni che costituisce la continuazione dell’arco visibile dall’esterno. L’acqua proviene da un condotto formato da due coppi affiancati l’uno sopra l’altro che sporge dalla parete di fondo e che evidentemente comunica o direttamente con la sorgente o con un’opera idraulica di captazione e trasporto al momento non accessibile. Al centro della parete di fondo è presente un grande stemma in pietra calcarea (0,429 x 0,38 m). Lo scudo ha una forma a mandorla e presenta nell’unico campo la raffigurazione di un monte di sei cime all’italiana sormontato da due stelle ad otto raggi. Sopra lo stemma è presente una lastrina rettangolare (0,457 x 0,088 m) che reca scolpito un testo in belle lettere gotiche disposte su due righe: *SER•GRADI•PERI•DE / URBINO•A•M•CCCXLVIII. Il testo è preceduto da un motivo a forma di rosetta e le parole sono separate da punti triangolari. Il numerale romano X presenta una grafia a tre tratti simile ad un triscele. La formula onomastica al caso genitivo presuppone un termine sottinteso (opus, munus, donum, ecc.) riferito all’opera realizzata dal personaggio.

È possibile leggere chiaramente tre distinte fasi costruttive del monumento. Della prima fontana realizzata nel 1348 rimane soltanto il muro di fondo con lo stemma e l’epigrafe e si può soltanto immaginare quale aspetto avesse in origine. La coincidenza cronologica tra l’erezione della fontana e l’insorgere dell’epidemia di peste nera non può essere considerata casuale. La presenza del morbo a Todi è testimoniata sia da una bolla di Clemente VI che concede la facoltà ai sacerdoti della città di assolvere plenariamente i peccatori per tutta la durata della pestilenza, sia dall’elevato numero di lasciti testamentari in favore degli istituti di assistenza ospedaliera della città negli anni 1348-1349. Inoltre i Priori, alcuni dei quali erano stati colpiti dalla malattia, adottavano una serie di provvedimenti, tra cui l’adozione di rigide regole per le esequie e la sepoltura dei cadaveri e la convocazione di tre medici forestieri stipendiati dal Comune. Il sapere medico medioevale, basato ancora in gran parte sulla cosiddetta teoria degli umori del medico greco Galeno, non era in grado di comprendere la natura e i meccanismi del contagio, le cui cause venivano fatte risalire a congiunzioni astrali sfavorevoli, alla presenza di misteriosi vapori che si sarebbero liberati dalla terra e dai mari infettando l’aria, oppure ancora alla collera divina nei confronti dell’umanità corrotta. Non stupisce che una medicina “umorale” tendesse ad attribuire all’acqua un qualche ruolo nel contagio: “fa di guardarti dall’umido quantunque tu puoi” consigliava in quegli anni il mercante fiorentino Giovanni di Pagolo Morelli, “la umidità è madre di putrefazione” scriveva Marsilio Ficino in un passo in cui trattava le cause della pestilenza che aveva colpito Firenze nel 1479. La teoria miasmatica si combinava con quella contagionistica. Anche se veniva completamente ignorato il ruolo svolto dagli animali, in particolar modo topi e pulci, nella trasmissione del contagio, era ben chiaro come esso si trasferisse da uomo a uomo tramite contatto diretto, vicinanza e utilizzo di oggetti comuni (vesti, boccali, piatti, ecc.). Si era addirittura diffusa la convinzione che per essere infettati fosse sufficiente la sola visione di un ammalato. Le occasioni di incontro tra persone andavano quindi ridotte al minimo indispensabile. I luoghi frequentati, come le chiese o le fonti, ben presto sono riconosciuti come focolai del contagio. A gettare cattiva luce sulle fontane probabilmente deve aver contribuito anche la descrizione della peste di Atene del 430 a.C. contenuta nell’opera di Tucidide, l’autore infatti si sofferma nella descrizione della smodata sete che affliggeva gli ammalati che accorrevano nelle pubbliche krenai nel tentativo estremo di estinguere il loro innaturale desiderio di bere e cadevano infine esanimi nelle vasche che venivano così contaminate. Su questo background ideologico attecchiscono le persecuzioni degli ebrei, scelti come principale capro espiatorio dell’epidemia e accusati di diffondere il morbo gettando veleni nei pozzi, nelle fontane e nei fiumi di tutto il mondo.
All’interno di questo quadro storico la realizzazione di una nuova fontana pubblica, che nel caso specifico di Pontecuti non è improbabile fosse stata del tutto priva di vasche proprio per impedire che l’acqua potesse stagnare e quindi venire volontariamente o involontariamente contaminata, può essere interpretata come un provvedimento sanitario in favore della comunità locale che sino ad allora doveva essersi rifornita direttamente dal fiume o da cisterne alimentate dalle acque piovane, non prestandosi la natura rocciosa del suolo allo scavo di pozzi.

Il personaggio dedicante può essere identificato con Gradolus quondam Peri de Fermignano de Urbino publicus imperiali auctoritate notarius noto attraverso un unico strumento notarile inerente la cessione di una dote, rogato il 13 marzo 1343 e confluito nell’archivio della Venerabile Fraternità di Santa Maria della Misericordia della sua città. Non ci è dato sapere per quale motivo Gradolus sia arrivato sino a Todi e per quale motivo abbia curato la realizzazione della fontana. La presunta funzione sanitaria della costruzione potrebbe essere considerata l’indizio di un suo ipotetico incarico non meglio precisabile presso l’Ospedale di San Leonardo, la cui esistenza nel borgo di Pontecuti è documentata sin dal terzo decennio del secolo. In favore di questa supposizione si può notare che nel 1836 il terreno su cui sorge la fontana apparteneva alla Curia Vescovile. Inoltre si è creduto di riconoscere lo stesso appezzamento in un catasto descrittivo delle proprietà della Parrocchia di San Leonardo di Pontecuti risalente all’anno 1774; l’antichità del possesso è garantita nel documento dalla distinzione tra “Beni di prima erezione”, fra i quali rientrano le particelle in questione, e “Beni di Acquisto”.
La seconda fase costruttiva della fontana risale al 1734 quando vengono aggiunti la vasca e l’arcone di copertura, entrambi leggermente fuori asse rispetto al muro di fondo più antico che rimane sporgente di 0,33 m sul lato destro della struttura. A seguito dell’intervento lo stemma e l’epigrafe originali risultano comunque ancora visibili al di sotto della volta settecentesca.

In epoca ancora più recente l’arcone viene tamponato con un muro e la vasca viene trasformata in una cisterna di decantazione non accessibile. La tessitura muraria della tamponatura testimonia molteplici interventi succedutisi nel corso del tempo imputabili all’apertura di finestrelle di manutenzione e all’applicazione di doccioni a diverse altezze. Nel 1836, anno per il quale disponiamo di una accurata descrizione dell’edificio, la fontana appariva già nell’aspetto attuale, fatta eccezione per la presenza di alcune vasche affiancate alla struttura già allora dirute e oggi non più esistenti.
La probabile assenza di una vasca nella fontana più antica, la modesta dimensione di quella settecentesca e la sua successiva obliterazione, nonché il pessimo stato in cui versavano già all’inizio dell’Ottocento le vasche affiancate in tempi ancora più recenti alla struttura, in seguito definitivamente eliminate, sono tutti segnali che la comunità ha da sempre preferito servirsi del vicino fiume sia per il lavaggio di panni e attrezzature (trasparente la presenza del toponimo Scoglio delle Lavandare) sia per l’abbeveraggio delle mandrie. L’acqua sorgiva, come ricordava ancora la targa in marmo della prima metà del Novecento, era da destinarsi esclusivamente per uso alimentare umano e degli animali di piccola taglia.

La costruzione della pubblica fonte viene a costituire l’ultimo evento dello sviluppo urbano del sito di Pontecuti iniziato circa un secolo prima. Una Bolla di Gregorio IX del 1228 inerente alla fondazione del monastero di clarisse intitolato a San Giacomo fa riferimento semplicemente ad un locum qui dicitur Cutis dove evidentemente non esisteva né un ponte né un insediamento degno di nota. La cronaca di Ioan Fabrizio Degli Atti ci informa che la costruzione del ponte ha avuto inizio nel 1246, essendo in carica il podestà Romano Giacomo da Ponte (si noti la corrispondenza tra il nome del personaggio e l’opera realizzata con evidente valenza autocelebrativa) della cui famiglia si conservano ancora quattro stemmi murati nei piloni dell’arcata centrale. Il termine refacto allude chiaramente alla presenza di una struttura più antica già caduta caduta in rovina ai tempi del cronista. La soluzione dell’enigma è arrivata dalla recente scoperta dei resti di un ponte di epoca romana nell’alveo del fiume, circa 300 m più a valle del ponte medioevale. Il ponte è terminato nel 1248 quando alla sua estremità rivolta verso Todi viene posta l’epigrafe commemorativa ora conservata presso il Museo Lapidario Comunale. Nel 1277 nelle Rationes Decimarum compare per la prima volta il nome Ecclesiae S. Leonardi de Ponte Cutis; la barriera del fiume veniva in questo modo infranta non soltanto fisicamente ma anche ideologicamente, ponendo a tutela del punto di passaggio un santo capace di spezzare i vincoli e donare la libertà. Il Liber Focolarium del 1290 registra la presenza della Villa Ponte Cutis sorta attorno al ponte e alla chiesa la cui popolazione ammontava al ragguardevole numero di ottantacinque fuochi. La villa diventa castrum nel 1313 quando viene eretta una cinta difensiva con torri e porte, una delle quali dava accesso direttamente al ponte, e il Comune vi insedia un Castellano. Successivamente sono attestati restauri delle mura nel 1358, anno in cui il Capitano del Popolo Roberto Belforti da Volterra lascia un suo stemma sopra la porta castellana detta della Nave e nel 1419.